Due storie nel girone misterioso dei trasporti in Italia. Una di successo con una lepre che corre lungo l’itinerario argentato dei binari, l’altra di fallimenti capaci di sbriciolare le ali al tricolore, dopo 70 anni vissuti pericolosamente tra clamori e glamour prima, tra affanni e liquidazioni negli ultimi venti anni.
La prima è una cronaca di successi di una grande azienda pubblica, controllata al 100 per cento dal Tesoro, capace di rinascere in virtù di scelte strategiche sofferte quanto lungimiranti, legate al sistema dell’Alta velocità, vero motore culturale per un mercato moderno e competitivo. La seconda scandisce l’itinerario sconfortante di una perdita inarrestabile di soldi e di appeal, il precipizio in un gorgo di bilanci in rosso, non solo finanziari, che mettono a terra aerei e personale, allontanando irrimediabilmente gli italiani dalla livrea tricolore, un tempo vanto e amato simbolo del protagonismo del Paese nel mondo.
L’una pubblica florida, in grande spolvero; l’altra privata sull’orlo del terzo crack in dieci anni, dove i capitali hanno fatto peggio, se possibile, della vituperata gestione pubblica, al capezzale della quale ancora una volta per l’ultimo tentativo di salvataggio c’è proprio lo Stato, che tanto sin qui ha speso e assai poco raccolto. I lettori avranno capito sin dalle prime righe che parliamo delle Ferrovie Italiane dello Stato e dell’Alitalia.
Il bilancio 2016 delle Ferrovie, presentato dall’amministratore delegato Renato Mazzoncini con dovizia di particolari e raffronti statistici tra i competitor, lascia poco adito al dubbio: il risultato netto di 772 milioni di euro rappresenta un record e consente di staccare all’azionista Stato una cedola di 300 milioni di euro. L’Ebitda arriva a 2,3 miliardi di euro con una crescita del 16,1 per cento rispetto all’anno precedente. I ricavi operativi del Gruppo si attestano a 8,93 miliardi di euro (+4 per cento), il valore economico distribuito è pari a 6,83 miliardi di euro.
Le FS sono i primi investitori in Italia con 5,95 miliardi di euro, mentre proseguono in una politica di ricambio generazionale capace di attrarre i giovani che la considerano la prima o comunque tra le migliori società italiane in cui lavorare. Continuano, per altro verso, gli investimenti in materiale rotabile, la flotta AV si è arricchita di 23 Frecciarossa 1000, mentre quella regionale di 23 treni Jazz, 6 Swing, 133 carrozze Vivalto e 3 convogli Flirt, un piccolo anticipo della maxi gara per 500 nuovi treni regionali avviata nel 2016 e destinata a cambiare volto anche al trasporto su ferro locale e metropolitano secondo le linee di piano assai care a Mazzoncini come al ministro Graziano Del Rio.
I ricavi da servizi di trasporto delle FS salgono a 6,83 miliardi di euro, mentre restano costanti i costi operativi, aumentano invece le rotte servite dai Frecciarossa che raggiungono Venezia, avviati collegamenti tra Milano e Bari, Lecce e Taranto. Il sistema AV si avvale inoltre di un servizio integrato Frecce + bus pensato per raggiungere località non direttamente servite da questi treni come Siena, Perugia, L’Aquila, Matera e Potenza.
L’occupazione resta sostanzialmente stabile, cresce da 69 mila a 70.180 unità per effetto di assunzioni e acquisizioni societarie come quella delle Ferrovie Sud Est. Molto positivi a detta dei vertici del Gruppo sono le performance di Busitalia per la gomma e di Netinera Deutschhland per le ferrovie regionali tedesche, ottime quelle di RFI per la rete e di Italferr per lavori e progettazioni in Italia e soprattutto all’estero. Le FS mantengono un buon livello di solidità finanziaria con mezzi propri, che a fine 2016 raggiunge i 38,5 miliardi di euro e si colloca al vertice delle aziende ferroviarie europee per redditività con un Ebitda margin al 25,7 per cento, rispetto alla francesi SNCF (12,8 per cento) e del DB germaniche (10,3 per cento) che pure sono molto più grandi per lunghezza della rete e volumi di trasporto.
«Questi risultati–ha sottolineato con malcelata soddisfazione Renato Mazzoncini–si inseriscono in una visione totalmente rinnovata del business che mira a fare del Gruppo FS Italiane uno dei leader della mobilità integrata a livello internazionale. Tutti gli obiettivi 2016 convergono sull’ulteriore innalzamento delle performance aziendali sia in termini di risultati economici, sia di sicurezza della circolazione e soddisfazione della clientela in uno scenario macroeconomico che guarda alla conferma dei segnali positivi a livello nazionale».
La concorrenza con NTV ha dato indubbio smalto alle FS che sono sempre più proiettate sui mercati internazionali per cogliere le grandi opportunità che si apriranno dal 2020 con la liberalizzazione europea. Non si inseguono effimeri primati come percorrere Roma Milano in 2 ore e 20 minuti grazie all’omologazione dei Frecciarossa 1000 sino a 350 km/h, bensì un progetto Paese di costante rafforzamento di una società pubblica dalla indubbie doti e dalle molte ambizioni, come testimoniano le gare per 4,5 miliardi di euro per nuovi treni regionali e quella recentissima per 1,6 miliardi di euro per l’acquisto di 135 convogli diesel da impiegare sulle linee non elettrificate confermata dall’amministratore delegato di Trenitalia Barbara Morgante.
L’altra faccia di Giano è rappresentata dallo scenario agghiacciante che avvolge la più grande compagnia aerea italiana: l’Alitalia che ancora si fregia del tricolore nella sua livrea irrimediabilmente gualcita e stinta da un calvario di crisi e fallimenti, che sembra travolgere dopo la mano pubblica anche quella privata, dimostratasi alla prova dei fatti, catastrofica quanto, se non peggio della prima.
Il tentativo in extremis di metter su un piano d’impresa sghembo e disarticolato da parte di Ethiad (49 per cento) e soci italiani (51 per cento), soprattutto Banca Intesa e Unicredit per investire 1,2 miliardi circa nel prossimo triennio, con gravi sacrifici occupazionali, si è infranto di fronte ad uno sciagurato referendum tra i lavoratori che ha bocciato sonoramente l’accordo, pur molto oneroso, raggiunto dai sindacati, non solo confederali e la proprietà. Piloti, assistenti di volo e personale di terra dell’Alitalia hanno risposto un no urlato, con un alto grado di comprensibile emotività, all’ennesima richiesta di sacrifici dopo 10 anni di cassa integrazione, di revisione delle norme, di sacrifici. Hanno voluto istintivamente rispondere all’arroganza di comportamenti che il management voluto da Ethiad ha dimostrato negli ultimi tre anni, a fronte di scelte disastrose e di una incapacità gestionale temeraria che ha portato la compagnia italiana ad accumulare perdite per centinaia di milioni al ritmo di due milioni al giorno, oltre le più pessimistiche previsioni, senza aver invertito la tendenza a perdere quota sia sul mercato, sia rispetto ai diversi modelli di business.
Un avvitamento assai prevedibile, ignorato per colpa, per interesse di terzi, per lucrare guadagni, forse per coprire falle e malefatte del passato e del presente. La cronaca più che i tre commissari nominati dal Governo lo svelerà nei prossimi mesi, sperando non faccia sconti a quelle trame oscure che all’ombra dei fallimenti di Alitalia hanno prosperato, come pure ha fatto Ethiad acquisendo i pochi asset validi, gli slot appetibili, il traffico intercontinentale fatto gravitare a Dubai.
Le cifre fotografano, in maniera impietosa, quello che appare come un declino irreversibile, prima ancora di capirne le ragioni e le responsabilità. Alitalia possiede una flotta di 121 aeromobili, 25 dei quali per il lungo raggio, sono 80 le destinazioni totali 26 in Italia le altre tra Europa e resto del mondo. Paragonata alle altre grandi compagnie che operano nel nostro Paese è drammaticamente ultima. Lufthansa ha una flotta di 260 aerei ricavi per oltre 31,6 miliardi di euro rispetto ai 3,3 di Alitalia e ai 6,5 di Ryanair. La nostra compagnia perde almeno 600 milioni di euro l’anno, quella tedesca quella tedesca guadagna 1,7 miliardi di euro occupa 123.287 persone, ha un costo del personale di 7.354 milioni di euro contro i 613 milioni di Alitalia e i 585 della compagnia irlandese che con 10.926 dipendenti fa volare ben 350 aerei con una quota di traffico che la pone al primo posto in Europa e al quinto nella graduatoria mondiale, senza avere nessuna rotta intercontinentale.
Il numero di passeggeri trasportati è ancora più impietoso per i nostri colori: Lufthansa ha fatto viaggiare nel 2015 poco meno di 108 milioni di passeggeri, erano 51,3 nel 2005, Ryanair nello stesso periodo ha raggiunto la quota di 101,4 ( per superare gli altri competitor nel 2016) era dieci anni prima a 33,4 milioni, Air FranceKlm è a 89, 8 milioni nel 2015 rispetto ai 69,9 del 2005, British Airways ha raggiunto gli 88,3 milioni era a 63,2, Easyjet arriva a 69,8 nel 2015 e 30,3 dieci anni prima, Cenerentola Alitalia ha fatto viaggiare nel 2015 23 milioni di persone erano 30 nel 2005. Alitalia nel mercato nazionale ed europeo trasporta 19,8 milioni di persone, Vueling 24,8 milioni, Easyjet 73,1, Ryanair 106,4 milioni. I posti occupati per volo raggiungono rispettivamente quota 109 per la compagnia italiana 144, 160 e 175 per le altre; il margine medio per volo è negativo per 2,3 per Alitalia mentre risulta positivo per le altre tre nella sequenza di 0,8 , 1,4 e 2,4.
Tutte queste cifre elaborate da uno studio dell’Università Bicocca di Milano fotografano non solo il disastro della compagnia italiana, ma le enormi difficoltà che si frappongono ad un suo rilancio, in un mercato così altamente competitivo e presidiato. Recuperare quote di traffico a concorrenti moderni efficienti e agguerriti sembra ad oggi una missione disperata, se non impossibile. I pessimisti sostengono che ormai l’Italia si è giuocata la sua più importante compagnia aerea, se sopravviverà sarà di dimensioni e pretese assai ridotte.
Il Governo italiano non ha potuto fare altro per scongiurare il fallimento, di fronte all’apertura dello stato di crisi, che nominare tre commissari straordinari Luigi Gubitosi, Enrico Laghi e Stefano Paleari, nonché provvedere ad un prestito ponte di 600 milioni di euro, emesso a condizioni di mercato così come prescrivono le norme UE, per garantire la piena operatività della compagnia, in attesa di una sua cessione si spera unitaria, o di altre soluzioni che potrebbero emergere dal bando di gara già messo a punto dai commissari.
Tocca ora a Gubitosi, Laghi e Paleari intervenire con il bisturi delle decisioni immediate per contenere costi e perdite. Si parte dalla rinegoziazione dei contratti, da quelli sulla copertura del rischio sui prezzi del petrolio, a quelli sul leasing degli aerei incomprensibilmente più alto di circa il 30 per cento rispetto alle altre compagnie, ad alcuni contratti derivati, per mettere mano anche al costo del lavoro, forse il capitolo più spinoso ed emblematico. Duecento milioni di tagli ha sostenuto in questi giorni Enrico Laghi, una nomina la sua che ha sollevato da più parti non solo dal Movimento 5 Stelle non infondate polemiche, perché in passato è stato presidente del collegio dei revisori dei conti di Alitalia, nonché consigliere in quota Unicredit e non risultano suoi atti formali che evidenziassero una così disastrosa conduzione della compagnia, al cui vertice è bene non dimenticarlo sedevano il presidente Luca di Montezemolo e come vice presidente il ceo di Ethiad James Hogan.
Gli azionisti di Alitalia hanno subito perdite vistose, assai meno comunque, di quelle dello Stato, ovvero di noi cittadini-contribuenti. Le sole banche sono esposte negli ultimi 9 anni per 1,9 miliardi di euro, cosa che fa dire al presidente di Intesa Gian Maria Gross-Pietro che debbono tornare al loro ruolo di investitori, non di recupero naufraghi, in nome dell’italianità. Il conto in rosso di Alitalia sarebbe in realtà ancor più salato di quello sin qui ipotizzato negli anni da studiosi e autorevoli commentatori. Andrea Giuricin, docente di economia dei trasporti alla Bicocca di Milano, lo ha calcolato in oltre 10 miliardi di euro. Colpa anche di una contrazione dei ricavi. Occorrerebbero, secondo questo studio, circa 4 miliardi di euro per far decollare di nuovo la compagnia tra investimenti necessari e debiti da saldare. Il tutto in uno scenario di crescita espansiva del trasporto aereo, che sembra aver lasciato a terra definitivamente la crisi, puntando su nuove rotte e servizi, con aree di business diversificate.
Un altro fattore è illuminante: non sono i conti dei 12.450 dipendenti a far andare fuori rotta l’Alitalia. Il costo del lavoro nel complesso è inferiore di molti punti percentuali a quello di tutte le grandi compagnie già citate, è addirittura minore rispetto a quello di low cost come Easyjet, esclusa ovviamente Ryanair, per la quale sono dovute alcune considerazioni decisive. Basti ricordare che un gran numero di personale di volo, soprattutto piloti, non sono dipendenti della compagnia irlandese, bensì di società costituite appositamente o in alternativa di piloti che offrono le loro prestazioni con partita Iva, senza le garanzie e gli oneri previsti per il lavoro dipendente. I turni e le caratteristiche d’impiego del personale Alitalia, sia di bordo sia di terra, indicano performance ottime rispetto a quelle generali del settore.
Come mai dunque questo disastro si abbatte su Alitalia? Iniziamo a sottolineare che è il modello di business il primo buco nero della gestione: impossibile per struttura societaria incrociare le rotte a breve raggio con le low cost, di tutte le destinazioni nazionali la compagnia tricolore mantiene il primato solo per otto, tutte le altre sono appannaggio dei competitor. I collegamenti intercontinentali sono troppo pochi, non in grado di compensare le perdite, anche perché nell’alleanza Sky Team, tutt’ora operativa, la compagnia offre una sorta di feederaggio agli altri vettori più grandi e ne ricava ben poco.
Non è in grado per le ridotte dimensioni della flotta di offrire un network appetibile alla clientela, finisce per essere scarsamente competitiva anche nei collegamenti europei a più alto valore di mercato. Tutto ciò si traduce in una disaffezione della clientela e in uno scadimento dell’offerta come testimonia il 58esimo posto nella classifica della qualità dei servizi, che vede al sesto posto invece l’azionista di ieri Ethiad, sul quale molti confidavano per un serio rilancio, mentre si è rivelato incomprensibilmente distratto nelle gestione, focalizzato solo a garantirsi immediati ritorni, incapace di capire le logiche, quali che siano, dei rapporti in Europa con personale e clienti.
Altre assolute stranezze negli indirizzi di Alitalia riguardano il management: molti dei posti chiave continuano ad essere occupati da dirigenti che vantano ben tre fallimenti. Perché restano al loro posto? Quali imprese nel mondo li avrebbero mantenuti lì? Debbono tutelare interessi terzi, si chiedono i commentatori più smaliziati? I rapporti tra la compagnia e l’intero sistema del trasporto aereo italiano, compresa la gestione degli aeroporti, è di buon livello o sul deficit di Alitalia altri fanno profitti in silenzio?
Respingere un accordo che prevedeva 850 esuberi e una riduzione del 9 per cento dello stipendio del personale di volo si rivelerà un errore drammatico, non vorremmo tuttavia che i lavoratori diventassero una volta di più la foglia di fico per occultare verità amare e molto più sgradite. Altri dovrebbero rispondere di fallimenti a ripetizione, di soldi pubblici dilapidati, di scelte errate senza che ad esse corrispondesse un attento monitoraggio. La cloche, in questo caso, non era affidata ai comandanti in divisa blu, ma ad altri colletti bianchi, e non è certo una ventilata azione di responsabilità in salsa italiana che potrà fornirci le risposte cui abbiamo diritto da cittadini e clienti. Augusto Fantozzi, dicono le cronache, liquidatore della vecchia compagnia, l’avrebbe chiesta in passato per Laghi. Sì, proprio lo stesso che oggi ne è commissario, strano no?
Ci auguriamo, a questo punto, che le pesanti sconfitte del passato evitino ulteriori pasticci, come quello di supplicare Ferrovie, Cassa Depositi e Prestiti o altre aziende in salute di correre al capezzale di Alitalia per prolungarne una sorte stentata, solo al fine di togliere dal campo della polemica politica un tema che ne è stato già troppo inquinato.
Si operi con lungimiranza e decisione, si offrano ai lavoratori le giuste tutele, ma una volta per tutte si vari un progetto in grado di volare con le sue sole ali, senza ambiguità. Lo pretendono gli italiani, lo chiede il mercato, lo vogliono i viaggiatori. Se l’Italia non è in grado di avere una compagnia aerea ne deve prendere atto e assumersene le responsabilità come economia nazionale nel suo complesso: il mondo globalizzato non guarda più le bandiere, quando gli fa comodo s’intende. (UBALDO PACELLA)