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FLYING ON

LUCA PARMITANO: LO SPAZIO, UN NERO CHE CONOSCO BENE

#tbt di ROMINA CIUFFA. Spazio, luglio 2014Ripubblico un’intervista risalente al giugno del 2014, perché lo spazio ha tempi interplanetari che, sulla Terra, valgono poco.

Chiedere a Luca Parmitano di parlare del «suo» spazio è difficile. Difficile perché ciò che lui ha fatto è nei sogni dell’umanità: lo spazio, vetta irraggiungibile di un mondo di cui facciamo parte senza averne coscienza né percezione. Così, parlare con questo maggiore dell’Aeronautica Militare e astronauta dell’ESA selezionato tra tutti dà la sensazione di una conversazione con un marziano. E come conversare con un marziano? In che lingua? Cosa chiedergli? Cosa hanno visto i suoi occhi? E il suo cuore? E la paura? E l’immensità? E le stelle? E l’abisso, l’infinito, la galassia, le luci e il buio, la vita, la relatività, la piccolezza, le misure? E il coraggio?

Ma quando poi il «marziano» è italiano, le domande vengono. E capiamo poi che l’Italia e lo spazio non sono lontanissimi. In effetti il nostro è stato il quinto Paese a mettere in orbita un satellite dopo Urss, Usa, Gran Bretagna e Canada, ed è tra i fondatori, nel 1975, dell’Agenzia spaziale europea (ESA), 13 anni prima del debutto, nel 1988, dell’Agenzia Spaziale Italiana (ASI). Lo shuttle Atlantis decolla per la missione STS-46 dal Kennedy Space Center il 31 luglio 1992, portando in orbita Franco Malerba, il primo astronauta italiano dell’ASI, per quasi 8 giorni in orbita insieme a 6 compagni di viaggio. Il secondo volo del TSS (TSS-1R) avviene durante la missione STS-75 dello shuttle Columbia, lanciato il 22 febbraio 1996 per 15 giorni con due italiani a bordo: Umberto Guidoni e Maurizio Cheli (da sinistra nelle foto qui sotto). L’Italia e l’ASI sono intanto i protagonisti del volo spaziale abitato con un’industria italiana (Alenia Spazio, poi diventata Thales Alenia Space).

Nel 1998 l’ESA istituisce ufficialmente l’European Astronaut Corps (EAC), con sede a Colonia e, dopo l’attività spaziale di Malerba e di Cheli, Guidoni è stato poi il primo astronauta europeo ad entrare nella stazione spaziale internazionale, anticipando Paolo Nespoli e Roberto Vittori; quest’ultimo parte il 25 aprile 2002 con il lancio dal cosmodromo di Baikonur, in Kazakistan, della Soyuz TM-34. Circa ogni sei mesi una Soyuz arriva sulla ISS (la Stazione spaziale internazionale, in lingua inglese International Space Station) con tre astronauti a bordo, due dei quali danno il cambio all’equipaggio, mentre il terzo rientra con l’Expedition precedente sulla vecchia Soyuz dopo qualche giorno, ed è nuovamente Vittori a partire il 15 aprile 2005, arrivando sulla ISS due giorni dopo per trascorrervi 10 giorni e compiere gli esperimenti della missione ESA Eneide sponsorizzata dal Ministero della Difesa e dalla Regione Lazio e supportata dalla Finmeccanica e dalla Camera di Commercio di Roma; Vittori farà un terzo volo nello spazio con la missione DAMA.

Paolo Nespoli e Roberto Vittori nel laboratorio europeo Columbus sulla ISS, maggio 2011

Paolo Nespoli è invece il protagonista della missione Esperia (shuttle Discovery in partenza dal Kennedy Space Center il 23 ottobre 2007), e torna in orbita anche nella missione MagISS tra il 15 dicembre 2010 per documentare lo spazio.

Durante la quarta selezione ESA, sono ancora due su sei i nuovi astronauti italiani: Luca Parmitano e Samantha Cristoforetti, quest’ultima la prima donna italiana nello spazio alla fine del 2014 sulla Soyuz TMA-15M. Parmitano è partito il 28 maggio 2013 per tornare a novembre, dopo 166 giorni, 6 ore e 19 minuti nello spazio, la prima missione di lunga durata dell’Agenzia Spaziale Italiana.

Il 27 novembre scrive sul suo blog dallo spazio: «Il portello della Soyuz appena chiuso è come la copertina di un libro appena finito di leggere. Il senso di abbandono è sorprendente, fino a che non si comprende che l’ultima pagina non è altro che l’invito ad aprire la prima del prossimo libro. Ancora una volta sono il primo ad installarmi nel sedile: la microgravità mi facilita il compito, e ricordo con quanta fatica compivo gli stessi movimenti, a terra, appena sei mesi fa. Il mio ultimo sguardo dallo spazio mostra una rotazione lenta e non inattesa. Tutto fuori è di un nero che conosco bene. Dentro, noi ci guardiamo intorno, tre pollici sollevati davanti a noi per confermare che stiamo bene. Io sto ridendo come un bambino. Sento fortemente il senso di simmetria, quasi palindromica, di quello che sto vivendo: sei ore di volo mi hanno portato sulla Stazione – sei ore fa ero ancora a bordo, ora sono tornato. Nulla è cambiato, nulla sarà mai uguale»

Domanda. Cosa l’ha portata a volare, prima in cielo, poi nello spazio?
Risposta. La parola chiave è «passione»: ho sempre sognato di volare, attratto dal volo e dalla libertà uniti al prestigio del lavoro del pilota militare. Il momento chiave è stato nel 1993 quando, negli Stati Uniti, mi ha ospitato in uno «scambio da studente» un navigatore militare e poliziotto. Innanzitutto mi affascinò molto il fatto che una persona così interessante e umana facesse un lavoro come quello, perché ci sono pregiudizi nei confronti dei militari, della loro mentalità e del lavoro che fanno. Mi sorprese molto. Fece inoltre riemergere il mio desiderio di volare, e decisi di tentare il concorso nell’Accademia Aeronautica. Dopo 4 anni ero pilota militare, non un lavoro di ufficio né un lavoro che si fa per i soldi o per passare il tempo, tutto il contrario invece. Ho vissuto il mio lavoro come un aspetto che mi definisce come persona.

D. Come sono collegati i due lavori di pilota e astronauta?
R. Sono stato prima pilota di caccia, poi pilota sperimentatore, e da lì a divenire astronauta è stata un’evoluzione. In realtà l’Aeronautica è da sempre molto vicina al lavoro spaziale, soprattutto l’Aeronautica Militare italiana, che ha con esso un legame storico. Per quanto mi riguarda, un vero e proprio sogno che avevo sempre inseguito.

D. Lei è passato a svolgere missioni come astronauta in quanto selezionato dall’Agenzia spaziale europea?
R. Nel 2008 l’Esa ha bandito un concorso a livello europeo per 4 astronauti, ed io con molta umiltà ho dato tutto quello che potevo nell’intero anno di selezione: la mia passione, il mio desiderio, l’intelligenza, gli studi, la mia esperienza lavorativa. Sono anche stato fortunato perché mi sono trovato nel posto giusto al momento giusto con la giusta esperienza e la giusta età.

D. Fino ad allora lei non solo è stato un valido pilota dell’Aeronautica Militare, ma ha ricevuto onorificenze, una specialmente con riguardo alle modalità in cui ha evitato un drammatico incidente aereo. Può descrivercelo?
R. Uno degli aspetti più importanti del nostro lavoro, che si accentua ancora di più quando si tratta di un lavoro operativo, è che veniamo addestrati e pagati per fare scelte difficili che vanno dalla risoluzione di emergenza all’impiego di armamento in ambienti operativi. Quel giorno in particolare, l’11 maggio del 2005, ero in esercitazione sopra il Mar della Manica, volavo verso Ovest per poi fare un ingresso in Francia e simulare un attacco insieme ad altri velivoli. Mentre ero sul mare a bassissima quota, cercando di sfuggire ai radar degli aerei nemici, ho avuto l’impatto con un grosso volatile. Ero a bassissima quota, a 30 metri sul livello del mare, a una velocità di oltre 900 chilometri orari che separavano di pochi istanti il mio veicolo dall’impatto. Le condizioni erano tali da permettermi di eiettarmi senza poi avere conseguenze, le procedure mi consentivano di abbondare il veicolo, ma sapevo che l’aereo avrebbe potuto schiantarsi sopra territori abitati, per cui prima di lanciarmi ho cercato di fare un controllo del mio aereo, se funzionava ancora, se il motore dava ancora spinta, se il velivolo era danneggiato al punto di non poter volare oppure se era controllabile. L’aereo aveva subito danni ma volava, quindi potevo provare a salvare la situazione. Decisi di mantenere il controllo del velivolo e mi presi la responsabilità di portarlo a terra, anche se in condizioni meno ottimali: l’impatto con il volatile aveva distrutto l’abitacolo e rotto il mio casco, avevo perso le cartine, ero ricoperto di sangue e piume dell’uccello oltre che di vetri, e l’aereo era danneggiato anche all’esterno mentre il tettuccio rischiava di staccarsi. Ho continuato a volare in questo modo per poter rientrare nell’unica base che conoscevo nella zona, in Belgio, e al momento dell’atterraggio non avevo nessuna visuale frontale, il tettuccio era distrutto e non era trasparente e ho utilizzato la visuale laterale per portare a terra l’aereo. In questi casi o si viene puniti o si viene premiati: io sono stato fortunato e sono stato premiato con una medaglia d’argento al valore aeronautico dal presidente della Repubblica.

D. Il 28 maggio 2013 è partito con la Soyuz TMA-09M dal Cosmodromo di Baikonur, in Kazakistan, in direzione della Stazione spaziale internazionale, per la missione «Volare» dell’ASI. Vi è rimasto fino a novembre 2013 insieme al russo Fedor Nikolaevic Jurcichin e l’americana Karen L. Nyberg. A che fini era rivolta la missione?
R. In una missione di 166 giorni noi facciamo veramente tante cose, ma posso riassumerle in tre parole: scienza, tecnologia, esplorazione. Quando si parla di spazio e di stazione spaziale internazionale, questi sono i tre aspetti importanti che noi trattiamo. In primo luogo la scienza, che è un momento fondamentale delle nostre missioni sulla stazione perché l’ISS è un laboratorio orbitale – questo è un aspetto poco noto ai più – ma di fatto è uno dei laboratori più avanzati esistenti. Sono quattro i laboratori in orbita con la possibilità di effettuare esperimenti di tutti i tipi, dalla fisiologia alla biologia, alla meccanica dei fluidi, all’ingegneria dei materiali all’osservazione terrestre. La stazione spaziale è anche un luogo in cui noi sperimentiamo la nuova tecnologia, e nelle missioni abbiamo iniziato sin dal momento del lancio perché la nostra navetta aveva delle innovazioni sia nel software che nell’hardware: siamo stati il primo equipaggio internazionale a compiere la manovra di aggancio alla stazione rapida, quindi in sole 6 ore dal momento del lancio all’attracco. Poi durante tutta la missione abbiamo effettuato vari esperimenti per lo sviluppo di tecniche ad ultrasuoni e molto altro. Scienza e tecnologia insieme ci consentono di fare esplorazione.

D. Cosa vuol dire fare esplorazione volando a 400 chilometri di quota 16 volte al giorno?
R. Vuol dire che noi ora, utilizzando quei primi due elementi, la scienza e la tecnologia, siamo in grado di preparare la strada a chi nel futuro riuscirà a compiere missioni interplanetarie, e stiamo studiando come l’uomo possa sopravvivere a lungo in orbita per periodi superiori ai sei mesi. È un’esplorazione che nasce dalla conoscenza e dallo sviluppo di cose che ancora non abbiamo inventato, e in questo senso è importantissima, è il primo passo di un lungo cammino. Se tutto ciò non fosse abbastanza, c’è un aspetto che, una volta tornati a terra, a me piace evidenziare: per me lo spazio e il volo spaziale umano hanno una capacità di dare ispirazione che è imbattibile. Noi non parliamo solo agli studenti, parliamo agli scienziati, ai dirigenti, ai politici. La capacità di dare una spinta motivazionale e di ispirazione verso quello che l’uomo è in grado di fare elevandosi al di là delle bruttezze degli uomini e della terra è unica, e non esiste nessun altro ambito lavorativo che ha questa capacità di dare speranza.

D. Nello spazio ha svolto due «attività extraveicolari», definite più popolarmente ma impropriamente «passeggiate spaziali». In cosa consistono?
R. «Passeggiata spaziale» è una traduzione molto impropria del termine «spacewalk» perché non rende l’idea della complessità di un’attività extraveicolare, che dura tutta una giornata e che richiede moltissimo allenamento, preparazione e addestramento, è molto fisica poiché richiede di trascorrere 6 ore e mezza all’esterno della stazione in un ambiente estremo in cui lavorare è incredibilmente faticoso. Chiamarla «passeggiata» è veramente riduttivo: non c’è nulla della passeggiata, si va fuori a lavorare. Nel mio caso c’erano due attività ben separate in cui abbiamo lavorato in molte direzioni; la prima attività extraveicolare è stata dedicata soprattutto all’installazione definitiva di due elementi costruttivi della stazione, già posizionati in un luogo non permanente. Altre attività erano tese a riportare dentro degli oggetti di esperimenti che erano stati esposti nel vuoto negli ultimi anni, cose che ho fatto io personalmente, mentre l’ISS riconfigurava dei cavi elettrici per migliorare le prestazioni della stazione spaziale.

D. Nella seconda di esse ha avuto un incidente imprevisto ma è riuscito a rientrare nella stazione. Può descriverci l’avaria, mai verificatasi prima ad altri?
R. La seconda attività extraveicolare, dedicata all’installazione di alcuni cavi e di altri elementi al fine di preparare la stazione per l’arrivo di un modulo russo, è stata interrotta da un’avaria meccanica della mia tuta spaziale che ha inondato il casco di acqua e mi ha costretto a rientrare in emergenza completamente isolato, quindi al buio senza poter vedere, né sentire, né parlare, e respirando solo dalla bocca perché il mio naso era già ricoperto di acqua. Non ci si può addestrare all’esperienza che ho affrontato io, anche perché è una situazione imprevista, inoltre perché non si può ridurre in generale l’allagamento di un casco; tra l’altro non era mai accaduto prima, quindi è stato un incidente mai sperimentato. Siamo però addestrati a pensare in termini operativi e quindi alla risoluzione dei problemi, conosciamo bene il nostro scafandro, conosciamo la stazione dentro e fuori, ho passato letteralmente centinaia di ore sott’acqua per imparare a muovermi in tutte le condizioni: la risoluzione di un’emergenza come questa non è merito dell’astronauta, ma di chi a terra ci ha addestrati, di tutto il team che ha lavorato e ha portato alla risoluzione del problema.

D. In quanti eravate nello spazio nella missione «Expedition 34»?
R. Sulla stazione eravamo in 6 come equipaggio. Abbiamo delle navette che ci portano su e giù, e quelle hanno un equipaggio di 3 persone: il comandante, il pilota che ero io, e il passeggero che era Karen L. Nyberg, la quale non aveva in missione un ruolo attivo. Più specificamente: per andare e tornare dalla stazione si utilizza la Soyuz che è una navetta, e all’interno di essa ognuno ha un proprio ruolo. Quello principale l’ha il comandante che si occupa dell’assetto della navetta e ha la responsabilità generale della missione, essendo l’unico che può vedere il terreno dalla sua posizione. Il pilota si occupa della strumentazione, quindi il mio lavoro è stato quello di controllare che i motori, i computer, i sistemi di supporto alla vita funzionassero perfettamente. Il passeggero ha un ruolo attivo quando serve, ma non un ruolo specifico perché durante il volo questi compiti sono delegati al comandante e al co-pilota. Peraltro, una volta giunti sulla stazione, Karen aveva un ruolo assolutamente primario quale responsabile del modulo e del segmento militare.

D. Com’è l’Italia nel settore dell’astronautica?
R. È un Paese estremamente protagonista. La stazione spaziale è costruita con moduli e nodi, gli enormi cilindri che costituiscono i moduli abitativi: cinque dei moduli abitativi della stazione sono stati costruiti in Italia, grazie a un accordo bilaterale tra ASI e NASA, in base al quale l’Italia ha fornito all’agenzia statunitense i moduli abitativi, ottenendo opportunità di volo aggiuntive e utilizzo scientifico della Stazione. Il nostro modulo Columbus, che è il laboratorio europeo, è stato costruito in Italia; il Nodo 2, che è quello in cui noi dormiamo e lavoriamo, è stato costruito in Italia; il Nodo 3, la cupola che è la nostra finestra nella quale abbiamo fatto tutte le foto che poi ho inviato a terra durante quei mesi, anche quella è stata costruita in Italia. Quest’ultima, il PMM Leonardo, è il posto preferito dagli astronauti, un modulo logistico in cui scriviamo tutto quello che abbiamo a bordo della stazione e che riusciamo a metterci dentro, ed è uno degli ultimi pezzi aggiunti alla stazione. Quindi cinque moduli permanenti che sono il 40 per cento del volume abitabile della stazione sono stati costruiti in Italia; a questo 40 per cento vanno aggiunte due astronavi da trasporto cargo che sono state costruite in Italia: l’ ATV, «Automated Transfer Vehicle» europeo, ossia una nave europea ma costruita in Italia, e la Sinus, che è un’astronave americana, il cui motore pressurizzato è opera italiana. Ci si dovrebbe chiedere per quale motivo una ditta americana si rivolga all’Italia per costruire delle astronavi: il motivo è che la nostra industria aerospaziale, nel campo delle costruzioni, è tra le migliori nel mondo.

D. Questa è stata la sua unica missione per ora? Tornerà a volare?
R. Sì, sono stato selezionato nel 2009 e ho volato nel 2013, diciamo che sono il primo della mia classe a volare, ho un’aspettativa a lungo termine perché ho 37 anni ed è presto per andare in pensione.

D. È stato nominato «ambasciatore» del semestre di presidenza italiana del Consiglio dell’Unione europea: come svolgerà il suo incarico?
R. A me non piace inventarmi nulla ed ho un’idea molto stabile. La mia aspettativa è quella di raccontare una storia, non è la mia storia ma la storia di un’opportunità. Da giovanissimo sono partito dalla Sicilia per avvicinarmi di più all’Italia come pilota militare. Ho fatto un’esperienza internazionale, e sono cresciuto in un sistema aeronautico che era ed è italiano ma che mi ha avvicinato all’Europa. La stazione spaziale europea mi ha educato allo spazio e mi ha permesso di realizzare uno dei sogni più grandi della mia vita, volare nello spazio. Quando andiamo a considerare questa opportunità straordinaria, vediamo che per noi italiani l’Europa rappresenta un mondo intero di sviluppo in cui possiamo crescere e migliorare, in cui possiamo e dobbiamo dare il nostro contributo. In questo senso noi italiani dobbiamo desiderare di essere europei. In questi giorni si fa molto parlare di ideologie antieuropee come se l’Europa fosse un’imposizione, ma noi italiani dobbiamo ricordarci che il nostro è uno dei Paesi fondatori dell’Europa, e perciò dobbiamo desiderare di essere ancora più europei di quanto siamo adesso: non si perde la propria identità diventando europei, ma si acquista forza e coscienza sociale, si diventa più forti e più evoluti. Io sono un astronauta del corpo europeo ma ho volato in una missione tutta italiana generata dalla nostra Agenzia spaziale italiana, e il fatto di vivere e lavorare all’estero non vuol dire che non sono italiano, anzi mi consente di portare il contributo italiano dove posso e nel modo migliore. Negli ultimi 5 anni ho vissuto in Francia, in Germania, ho viaggiato tanto in Russia, e ora mi trovo negli Usa, a Houston, ma non per questo sono meno italiano.

D. Lo spazio è romantico ma poiché, come per le attività extraveicolari, non è una passeggiata ma un lavoro complesso e pericoloso, si concilia con la famiglia?
R. Non posso pensare di realizzare i miei progetti senza avere il supporto di mia moglie che è con me a Houston insieme alle mie figlie, e dei miei genitori, che sono in Sicilia, a Catania. Mia moglie è americana, per lei vivere a Houston è semplice e non problematico. Bisogna dire che chi sceglie un lavoro come il mio è cosciente che esiste un rischio e l’affronta. È molto ingenuo pensare che non si corrano pericoli, ma i rischi sono minimizzati dai nostri ingegneri che sono veramente in gamba e compiono un lavoro straordinario, facendo dimenticare quando sia complesso e pericoloso vivere e lavorare nello spazio.

D. Le manca lo spazio? Esiste un «mal di spazio», un po’ come il mal d’Africa?
R. Moltissimo, assolutamente sì.

D. Soltanto che in Africa ci si può tornare, volendo.
R. Esatto, invece nello spazio no. Mi manca moltissimo. Mentre ero in orbita ho scritto un blog in cui ho parlato delle attività extraveicolari, del vivere nello spazio, del lavoro di scienza, di tutto, inviando il blog a terra a chi si occupava della pubblicazione. Leggetelo.

ROMINA CIUFFA

 

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